Smart working eterno? Tra pigrizia e “paure” da ufficio, la scusa perfetta per evitare il lavoro vero
Da quando lo smart working è esploso in Italia, trasformando il salotto di casa in ufficio, è nato un fenomeno curioso e forse un po’ paradossale: la paura quasi patologica di tornare fisicamente in ufficio. Ma siamo davvero di fronte a un fenomeno serio o si tratta semplicemente della scusa perfetta per evitare di alzarsi dal divano?
Il racconto ufficiale parla di stress da rientro, ansia da socializzazione forzata e rigide regole di comportamento in ufficio. La realtà, però, sembra molto più terra-terra. Milioni di lavoratori si sono abituati a una vita più comoda, fatta di caffè fatti in casa, pause più lunghe e assenza totale di traffico e code nei parcheggi. Uscire dalla propria “comfort zone” è diventato un trauma, un salto nel buio che molti preferiscono evitare a tutti i costi.
La trasformazione del lavoro da casa ha però portato con sé anche un altro lato della medaglia: la produttività, che per molti è scesa, nascosta dietro schermi condivisi e videocall interminabili. Le distrazioni domestiche, dai familiari agli animali, sono un’arma a doppio taglio. Ma ammetterlo pubblicamente? Meglio non farlo, così si punta tutto sulla “paura dell’ufficio”, che diventa la narrazione ufficiale.
I manager sono spesso in difficoltà: come controllare il lavoro da remoto senza sembrare ossessivi? E soprattutto, come fare in modo che il lavoro da casa non diventi una scusa per procrastinare? La risposta non è semplice, e la realtà è che spesso lo smart working diventa una zona grigia tra impegno e pigrizia, tra autonomia e scaricabarile.
Qualcuno parla di rivoluzione culturale, di futuro del lavoro, di un modello che punta a migliorare la qualità della vita e l’equilibrio tra lavoro e tempo libero. Ma per molti si tratta di un alibi dorato per continuare a fare meno, nascondendosi dietro la comodità del pigiama e la scusa di una connessione internet ballerina.
Il fenomeno ha creato anche nuove tensioni sociali: chi in ufficio ci torna volentieri, magari per ritrovare un senso di comunità, è visto quasi come un “traditore” della nuova generazione dello smart working. Dall’altra parte, i “forever home workers” vengono spesso accusati di scansare il lavoro e di nascondersi dietro la pandemia.
E la domanda rimane: siamo di fronte a una reale trasformazione del mondo del lavoro o a un gigantesco bluff collettivo? Il lavoro da casa ha aperto nuove possibilità, ma ha anche svelato quanto molti fossero poco preparati ad affrontare l’autonomia e la responsabilità che ne derivano.
In fondo, forse il vero problema non è il luogo dove si lavora, ma l’atteggiamento con cui si affronta il lavoro stesso. Perché, se lo smart working diventa solo una scusa per evitare le responsabilità, allora la rivoluzione è destinata a fallire miseramente.
E mentre si discute di nuove normative, incentivi e modelli ibridi, la verità è che tanti italiani stanno solo cercando di vivere la propria pigrizia con un po’ più di stile e meno sensi di colpa. Sarà questa la vera “rivoluzione”?
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